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La coppa fantasma dell'Atleti

Era fatta, vinta, proprio contro il Real, nell’eterno derby di Madrid. Poi accade l’impensabile. E la coppa sfuma, insieme ai sogni dell’Atletico Madrid e del Cholo Simeone, l’artefice di quella creatura.
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Atletico Real Madrid 2014 - Illustrazione di Tacchetti di Provincia

Al triplice fischio del direttore di gara, l’olandese Kujpers, esplode l’irrefrenabile gioia dei colchoneros.

L’Atletico Madrid è campione d’Europa!!! Per la prima volta nella sua storia.

Al Da Luz l’ha decisa Diego Godin, il ministro della difesa, con un perentorio stacco di testa su sponda aerea di Juanfran. Una rete che manda al tappeto i rivali di sempre del Real Madrid, incapaci di scardinare la muraglia umana eretta per i restanti minuti dai biancorossi.

Tutti corrono ad abbracciare Diego Pablo Simeone, il Cholo. Colui che ha preso l’Atletico Madrid quando era una nobile piazzata della Liga Spagnola, portandolo poi a vincere sia in campo nazionale che europeo. Questa coppa dalle grandi orecchie è soprattutto sua!

Per il Real invece è una delle peggiori delusioni della propria nobilissima storia. Il sopracciglio di Ancelotti tocca vette di asimmetria mai raggiunte prima d’ora. Regna lo sconforto, e la sensazione che la Decima sia veramente maledetta.

Che succede? Vi stupite? E di che cosa?

Sarebbe potuta, e forse anche dovuta, andare esattamente così in quella calda sera di Lisbona. Perché al minuto 90+3 l’Atletico Madrid quella Coppa l’aveva effettivamente vinta. Proprio grazie all’incornata dell’uruguagio Godin.

Quanto accaduto dopo, dal 93esimo in poi, è qualcosa di talmente esoterico e trascendentale da far persino dubitare che sia avvenuto veramente. Non è dato di sapere come quella coppa sia finita alla fine nella parte blanca di Madrid. Non ci sono spiegazioni razionali.

È il mistero della coppa fantasma dell’Atletico. Quella che c’era, in bacheca. Salvo poi svanire improvvisamente, senza un perché. E riapparire poi dall’altra parte della città.

Il giusto epilogo

Non si sa bene dove volesse andare, Iker Casillas, o cosa volesse fare al momento del gol dell’Atletico. Alla fine rimane lì, nella terra di nessuno, e viene scavalcato dal colpo di testa alla cieca di Godin.

Sembra un segnale, un presagio oscuro, per il Real. Il giocatore più rappresentativo, il capitano, conscio di essere probabilmente a una delle sue ultime recite in camiseta blanca, rimasto col solo obiettivo di vincere quella maledetta Decima. E che ora rimane beffato, inerme.

Quel gol, d’altro canto, sarebbe il giusto epilogo per i ragazzi del Cholo. Un percorso, quello con il tecnico argentino, iniziato qualche anno prima, nel 2011. Con uno scialbo 0 a 0 a Malaga. E che ha visto una virata, in senso positivo, immediata, con la conquista prima dell’Europa League, poi della Supercoppa Europea e, infine, anche della Liga, a 18 anni di distanza dall’ultima affermazione.

A quel punto manca solo la coppa più bella, quella più importante. Il destino vuole che a contendergliela siano proprio gli odiati cugini. E chi potrebbe regalare al pubblico colchoneros quel successo, se non Diego Godin, nato nell’altra Rosario, quella uruguagia. Uno che c’era dall’inizio, quando le cose andavano male, e che ci sarà anche dopo, negli anni di gloria. Un leader maximo, uno dei muratori in grado di erigere, mattone dopo mattone, l’opera d’arte Atletico.

I ragazzi del Cholo sono forti, sanno giocare la palla, hanno pure grande talento. Ma una cosa la sanno fare meglio di tutti: difendersi, anche con tutti gli effettivi, se c’è bisogno. Se ti fanno gol, stanarli poi dalla loro area è un’impresa titanica. Una strategia figlia sicuramente dell’esperienza italiana, da allenatore, del Cholo Simeone, ai tempi in cui, al Catania, il suo portiere non era il gigantesco Courtois, ma Andujar, e la sua linea Maginot difensiva si componeva di gente come Silvestre, Terlizzi, Marchese e Bellusci.

Per informazioni chiedere alle varie Zenith, Porto, Austria Vienna, Milan, Barcellona, Chelsea. Tutte squadre che hanno incrociato, quell’anno, l’Atletico nel proprio cammino. Tutte uscite con le ossa rotte, spesso per un solo gol di scarto.

La strenua resistenza

La stessa cosa sta accadendo a Lisbona quella sera. L’occasione clamorosa di Bale, nel primo tempo, non sfruttata. Poi il gol, al 36esimo, al primo affondo biancorosso, su una pallaccia ributtata in area da Juanfran dopo un calcio d’angolo.

Per tutta la durata del resto della gara gli 11 messi in campo da Simeone riescono a imbrigliare una autentica macchina da gol, come sicuramente è quella in maglia bianca. Bale, Ronaldo, Benzema, Di Maria. Tutti in campo dall’inizio, nessuno in grado di forare la porta di Courtois. Nella ripresa Ancelotti butterà nella mischia anche il folletto Isco e il talismano Morata, ma niente da fare.

O con le buone o con le cattive (a fine partita, nell’Atletico, saranno ben 7 gli ammoniti) i ragazzi del Cholo riescono a fiaccare tutte le iniziative del Real.

Nei minuti di recupero, la Casa Blanca non sembra averne più. In campo regna anche un po’ di nervosismo, si ha la percezione che l’ordine naturale delle cose stia per essere definitivamente sovvertito.

Simeone in panchina ha percorso dai 7 agli 8 chilometri, su e giù, indiavolato. Probabilmente, dopo i vari Gabi, Koke e Raul Garcia, è lui quello con più acido lattico nelle gambe.

Solo un uomo se ne sta lì, a pochi metri di distanza dal collega, sereno e concentrato. È vero, il suo sopracciglio sinistro risulta perennemente più inarcato rispetto al destro, e questo potrebbe tradire una certa preoccupazione. Ma in realtà è semplicemente uno dei suoi tratti distintivi involontari, che anche tra 100 anni lo renderanno il mito che è.

Lui ha già visto tutto. Ha sempre dato la sensazione di avere una sfera di cristallo magica. Per le scelte che fa, per le decisioni che prende. Sembra sempre sceso da una galassia superiore alla nostra. E solo lui, probabilmente, può anche solo minimamente immaginare cosa succederà da quel fatidico minuto 93.

La palla dell’Ave Maria

Avanti tutta. Questo l’imperativo. Non c’è più nulla da difendere. Subire un altro gol, a quel punto, non farebbe alcuna differenza. Segnarne uno, invece, renderebbe giorno la notte. I supplementari potrebbero essere esiziali per un Atletico stremato, sfinito, alla canna del gas in termine di energie.

Si alza anche Sergio Ramos, Va a fare la punta. Inevitabile chiedere a uno come lui, difensore da quasi 100 gol in carriera, di unirsi al gruppo dei guastatori.

La palla dell’Ave Maria è affidata ai sapienti piedi di Luka Modric. Un calcio d’angolo, l’ultima chiamata per il Real.

Il croato chiude gli occhi e calcia dentro l’area. La traiettoria a uscire termina, più o meno, sul dischetto del rigore. Ci vogliono due cose da lì: un gran bel colpo di frusta, per imprimere velocità al pallone; una splendida torsione, per andare a pescare l’angolino non coperto dai 2 metri del belga Courtois.

Due cose non facili da avere a disposizione, al minuto 93 di una finale di Coppa dei Campioni, ultimo atto di una stagione a dir poco logorante. Due cose che però sono, stabilmente, nella ventiquattrore che Sergio Ramos porta da anni con sé in giro per l’Europa.

La palla finisce proprio lì. In quei 20 centimetri alla sinistra del palo. In quel minuscolo spazio finisce non solo il pallone, ma anche, subito dietro, tutte le preghiere di Simeone e tutte le speranze del popolo colchoneros.

È finita. Lo sanno già anche loro. Il muro è crollato, è filtrata acqua. Abbandonare la nave il prima possibile.

Il momento-Real

Ci sarebbero infatti ora altri 30 minuti da giocare, divisi in due tempi da 15. Ma a quel punto si è già entrati in un’altra dimensione.

Dove gambe, strategia e fiato non trovano più posto, in quell’istante, in cui a fare la differenza sono tecnica, talento e classe, ecco sbucare il Real Madrid.

L’Atletico non ne ha più, la spia della riserva è accesa da più di qualche minuto. I cambi sono finiti, anche perché Diego Costa, il cagnaccio dell’attacco biancorosso, aveva dato forfait, costringendo il Cholo a usare uno slot dopo appena 9 giri di lancette.

Resiste altri 20 minuti, un tempo e qualcosa. Prima di sgretolarsi definitivamente.

Di Maria sgasa sulla fascia e spara su Courtois in uscita. La palla si impenna verso il secondo palo, fino a trovare il ciuffo di Gareth Bale, che la spedisce giusta giusta sotto al sette. 2 a 1. Ora è finita davvero.

Gareth Bale. Pensa te. La beffa nella beffa.

Uno che, strapagato per portarlo via al Tottenham, ha sempre preso il Real Madrid come fosse la sua squadretta del quartiere. Un buon viatico che gli consentisse di: prepararsi alle sfide da giocare col Galles, uno; giocare a golf ad ogni momento libero, due.

Il giocatore che meno vorrebbero glorificare, ora che se n’è andato, i tifosi blancos. Salvo poi accorgersi, guardando il palmares, che, anche controvoglia, un posto nella loro hall of fame devono trovarglielo.

La decide lui, col suo ciuffo da rockstar.

Marcelo prima e, come ovvio, Cristiano Ronaldo poi, completeranno la danza delle merengues sulle ceneri del povero Atletico Madrid, sgretolatosi come un vampiro alle prime luci dell’alba.

Ce l’avevano fatta, era vinta. Ma poi l’impossibile è divenuto realtà tangibile.

La seconda chance

Chissà quale miriade di sentimenti deve aver albergato nelle menti del gruppo storico di quell’Atletico Madrid, dopo aver scoperto, due anni più tardi, che il Dio del Calcio aveva in serbo, per loro, una seconda chance.

Un’altra finale, stavolta a San Siro. Ma con lo stesso avversario. Il dannato Real Madrid.

Copione inverso, stavolta, con il vantaggio lampo del Real dopo appena 11 minuti, ancora ad opera di quel figlio di buona donna di Sergio Ramos. Il pareggio, quando 11 erano invece i minuti che mancavano ancora da giocare, di Yannick Carrasco.

E poi la solita, consueta, strenua resistenza. Trascinata questa volta oltre, anche, i tempi supplementari. Fino ai calci di rigore. Perché nel calcio o vinci o impari. E quella sera, a Lisbona, l’Atletico Madrid ha imparato la lezione.

Nella lotteria dal dischetto sono freddi e lucidi sia Griezmann, sia Gabi sia Saul Niguez. Juanfran, invece, sbatte contro il legno. Quello del palo destro della porta dello Stadio Giuseppe Meazza sito sotto la Curva Nord, dove ancora ora riposano le lacrime dei ragazzi del Cholo.

Perché anche quello è un momento Real. Non sbaglia nessuno: Lucas Vazquez, Marcelo, Bale, Sergio Ramos e Ronaldo. Gol per tutti. E Zinedine Zidane porta, nella parte bianca di Madrid, la sua prima Coppa dei Campioni vinta come allenatore.

Siamo a luglio del 2022. Il Cholo è ancora lì, con una squadra rifondata e rigenerata. Ancora non l’ha vinto, quel dannato trofeo. Ancora aleggia lo spettro di quella coppa, sparita all’improvviso e mai più ricomparsa.

E la sensazione, purtroppo per il tecnico argentino, è che per vedere vinta quella maledizione toccherà mettersi comodi.

" Abbiamo perso 3 finali contro di loro ma nessuna nei 90 minuti, sono orgoglioso dei miei ragazzi "
Diego Pablo Simeone
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