Il Grande Torino
La basilica di Superga è uno dei luoghi più visitati di Torino: insieme al Museo egizio, è meta di tutti i turisti che visitano la città prima capitale d’Italia. Progettata dall’architetto Filippo Juvarra, la basilica ha uno stile tardo barocco e nelle giornate di bel tempo è visibile da tutta Torino e da tutte le strade che portano alla città sabauda.
La basilica di Superga è un luogo sacro, ma è anche un luogo laico. Ed il luogo laico si trova nella sua parte posteriore: ogni 4 maggio migliaia di persone si dirigono laggiù con indosso un qualcosa di granata e tutti sono in silenzio.
Il 4 maggio a Superga si radunano gli adepti di una fede che non è né religiosa, né laica e nemmeno profana: il 4 maggio Superga diventa il luogo dove tutti i tifosi del Torino si ritrovano per rendere omaggio alla squadra che mercoledì 4 maggio 1949 alle ore 17:05, di ritorno da un’amichevole a Lisbona, si schiantò sulla collina di Superga.
A bordo del Fiat G.212 della Avio Linee Italiane c’erano trentuno persone (diciotto giocatori, tre dirigenti, quattro membri dello staff tecnico, tre giornalisti, quattro membri dell’equipaggio): morirono tutti. E con loro morì anche l’Italia, a poco più di un anno dalle elezioni politiche del 18 aprile 1948 e che stava risorgendo dalle ceneri della Seconda guerra mondiale. Il Paese era in ginocchio e la sua risalita andava a braccetto con i successi della squadra guidata in campo da capitan Valentino Mazzola ed una squadra che ha scritto la storia del calcio, non solo italiano.
Cos’era il Grande Torino? Ve lo raccontiamo.
Il Torino pre-1942/1943. Il mito del “Filadelfia”
Il Torino nasce il 3 dicembre 1906 dalla fusione tra la Torinese ed un gruppo di fuori usciti della Juventus. Quel giorno nasce la seconda squadra della città, quella ad avere nel suo nome…il nome della città di San Giovanni: il Torino. Dal 17 ottobre 1926 il “Toro” gioca nel nuovo campo sito in via Filadelfia, un impianto da oltre 15mila spettatori dotato di tribuna centrale, parterre, gradinate e tribune laterali.
Fino alla stagione 1938/1939 il Torino gioca dieci stagioni in Serie A vincendo uno scudetto ed una Coppa Italia. Il Torino entra per la prima volta nell’albo d’oro del nostro calcio con la vittoria del titolo nella stagione 1926/1927, ma questo è revocato per lo “scandalo Allemanni”. Il titolo sarebbe dovuto andare al Bologna secondo in classifica, ma il club felsineo per bocca di Leandro Arpinati, allora presidente della FIGC e persona molto vicina a Benito Mussolini, rifiuta di vincere un qualcosa che il club non ha guadagnato sul campo e quella stagione il titolo non è assegnato. Il Torino si rifà la stagione successiva, vincendo il girone finale di Divisione nazionale davanti al Genoa. Dopo Milano, anche Torino conta due squadre campioni d’Italia.
La svolta per il Toro avviene nel 1939 quando diventa presidente del club Ferruccio Novo, 42 anni, imprenditore dell’industria del cuoio nonché tifoso del club e suo ex giocatore a livello giovanile. Rileva la squadra da Cuniberti, diventando il quindicesimo presidente del club, il sesto in nove stagioni. Novo ha un sogno: dare dignità al club e farlo diventare tra le migliori squadre italiane, se non la migliore. E l’obiettivo è quello di avvicinarsi e (perché no?) superare la Juventus per il primato cittadino. I tifosi granata patiscono da anni il dominio bianconero (sette scudetti di cui cinque consecutivi ed una Coppa Italia) ed il fatto che la Juve è la squadra degli Agnelli, i ricchi, mentre loro sono la squadra operaia della città.
Novo tra il 1939 ed il 1942 porta sulla sponda granata del Po giocatori molto interessanti e di prospettiva: il primo è Franco Ossola, 18 anni di Varese, di cui si dice un gran bene nonostante la giovane età. Tra il campionato 1939/1040 ed il 1941/1042, il Torino si piazza una volta secondo in campionato, una volta sesto ed una volta settimo. La miglior posizione è nell’ultimo campionato, con i granata secondi staccati di tre punti dalla Roma che vince il suo primo campionato nazionale. Novo è certo che la vittoria del titolo è vicina, anche perché proprio nell’allora “mercato” arrivano sotto la Mole giocatori davvero forti: Mario Rigamonti dal Brescia, Pietro Ferraris (già campione del Mondo nel 1938) dall’Ambrosiana Inter, Guglielmo Gabetto dalla Juventus e Romeo Menti dalla Fiorentina.
Nel campionato 1941/1942 per il Toro pesano come macigni due sconfitte contro il Venezia, una in Coppa Italia (trofeo vinto dal club lagunare) ed una in campionato alla terzultima giornata. Novo capisce che al suo Torino mancano due tipi di giocatore: una mezzala e un attaccante di peso. Il presidente granata fa uno sforzo economico mostruoso per l’epoca e per la cifra monstre di 1,250 milioni di lire veste di granata proprio la mezzala e l’attaccante di peso di quel Venezia: Valentino Mazzola ed Ezio Loik. Questi due calciatori sono ciò che manca nel modulo granata che pratica club, il “sistema” WM, un modulo di gioco che prevede la squadra molto sbilanciata in avanti con tre difensori, due mediani, due centrocampisti e tre attaccanti, l’opposto del modulo più usato al tempo ovvero il “metodo”, più difensivista. “Metodo” o no, sulle gradinate del “Filadelfia” i tifosi sperano più che mai di tornare a vincere lo scudetto ed avere una squadra altamente competitiva.
Il periodo 1939-1943 è la base del Torino degli anni successivi, la base del Grande Torino.
La tromba di Ernesto Bolmida
Oltre a Loik e Mazzola, nel 1942 arriva alla corte di Novo anche il mediano della Triestina Giuseppe Grezar. Piano piano, si forma un Torino davvero molto forte. La testa degli italiani è però altrove: dal 10 giugno 1940 l’Italia è in guerra al fianco della Germania nazista e anche se si parla di “guerra veloce” da parte di Mussolini, nei fatti non sarà assolutamente così. Il calcio però è un buon diversivo: gli stadi sono pieni di tifosi che seguono le loro squadre sperando che possano fare meglio degli avversari.
E la stagione 1942/1943 vede dopo quindici anni anche i tifosi del Torino gioire: per la seconda volta, il club granata è campione d’Italia. Un campionato sofferto e vinto per un solo punto di vantaggio rispetto al sorprendente Livorno (44 punti contro 43). Alla guida tecnica del Torino c’è Antonio Janni (subentrato alla 25ma giornata all’ungherese András Kuttik) ed il top scorer della stagione è Gabetto con 14 reti, staccato di sette reti rispetto a Silvio Piola, vincitore della classifica marcatori con 21 reti. Non male per un giocatore che la Juventus (arrivata terza) lo dava per finito, ma che si è fatta ben pagare dal Torino (oltre 300mila lire del tempo) per cederlo ai “cugini”. Decisivi in quel campionato sono i due top acquisti di Novo arrivati dal Venezia, Loik e Mazzola. Quella stagione i granata vincono anche la Coppa Italia, la seconda della loro storia: cadono sotto la forza torinista in successione Ancona, Atalanta, Milan (fascisticamente chiamato “Milano”), Roma e, in finale, il Venezia.
I due successivi campionati sono particolari, perché si giocano in pieno conflitto e in piena guerra civile: non sono di “Serie A”, ma “Divisione Nazionale” e oggi non sono “conteggiati” come veri campionati. Per evitare che i calciatori vanno al fronte, le squadre trovano stratagemmi affinché i giocatori possano giocare e non essere chiamati alle armi: i giocatori del Torino sono “assunti” come operai della FIAT (e la squadra diventa Torino Fiat ), mentre quelli della Juventus sono inquadrati come operai della CisItalia, fabbrica di auto di proprietà del presidente bianconero Piero Dusio. La Serie A tornerà nella stagione 1945/1946 con calcio di inizio il 14 ottobre 1945 e da lì in avanti ci sarà una sola squadra a dominare: il Torino, capace di vincere cinque campionati nazionali consecutivi.
Ad una squadra fortissima, nella campagna rafforzamento del torneo 1945/1946 Novo porta sotto la Mole Valerio Bacigalupo (fratello minore di Manlio, campione d’Italia granata nella stagione 1927/1928) dal Savona, Aldo Ballarin dalla Triestina ed Eusebio Castigliano dallo Spezia. Questi giocatori, uniti a Mazzola, Grezar, Rigamonti, Maroso, Ossola, Loik, Gabetto e Menti danno vita a quella che è considerata come la squadra italiana più forte di tutti i tempi: il Grande Torino.
L’aggettivo “Grande”, per la Treccani, significa “il valore e l’eccezionalità di qualcosa” e questo si affianca bene alla squadra di Ferruccio Novo: cinque campionati vinti consecutivamente, 274 punti conquistati su 344 disponibili, 440 reti segnate, 151 rete subite. In quel cinque campionati, il “barone” Gabetto e Mazzola vincono la classifica cannonieri (nelle stagioni 1945/1946 e 1946/1947) con 22 e 29 reti. Quei cinque campionati sono dominati con distacchi molti alti rispetto alle seconde classificate (10 punti sulla seconda nel torneo 1946/1947 e 16 in quello successivo) ed in tre occasioni consecutive (1945/1946, 1946/1947 e 1947/1948) i gol realizzati sono a tre cifre (108, 125 e 104): nessuna squadra aveva mai più segnato così tanto in Serie A, nessun’altra segnerà così tanto. Un primato reso ancora più forte dalla vittoria contro l’Alessandria al “Fila” il 2 maggio 1948: 10-0, ancora oggi la partita con maggior scarto di gol segnati. Per non parlare delle vittoria per 7-1 a “campo Testaccio” contro la Roma del 28 aprile 1946, a oggi la più ampia vittoria esterna di una squadra. Nella stagione 1947/1948 il Torino vince cinque partite con almeno sei gol di scarto, una con cinque, cinque con quattro e sei con tre.
Diventa particolare il cosiddetto “quarto d’ora granata”: ad un certo punto della partita, durante le partite casalinghe al “Filadelfia”, si sente suonare una tromba e a quel suono Valentino Mazzola si tira su le mani, carica la squadra e questa va a dominare la parte finale della partita. A suonare la tromba è Oreste Bolmida, capostazione di Torino Porta Nuova, grande tifoso granata che ad un certo puntosi alza in piedi, suona il suo strumento che riecheggia per tutto il campo dando la scossa alla squadra. Questa pratica inizia durante il campionato 1945/1946 e sarà utilizzata fino all’ultima partita giocata dal Grande Torino 17 aprile 1949, la vittoria 3-1 sul Modena. La tromba di Bolmida dà la carica anche nei momenti di difficoltà, come il 30 maggio 1948 quando la Lazio vince 0-3 al minuto 20 del primo tempo, ma dopo il suono della tromba il Toro segna 4 reti in trentasei minuti, ribaltando lo svantaggio e vincendo la partita.
Lo stadio di via Filadelfia diventa il fortino di Mazzola e soci: tra il 31 gennaio 1943 ed il 6 novembre 1949, il Toro otterrà ben ottantotto risultati utili consecutivi.
Torino, stadio Comunale, Italia-Ungheria 11 maggio 1947
Gli anni del Grande Torino sono gli anni della ripresa non solo del nostro calcio, ma dell’Italia, uscita con le ossa rotte dalla Seconda guerra mondiale. Il Torino diventa la squadra d’Italia, tifata anche da tifosi di altre squadre perché questa squadra gioca il calcio più bello con una squadra forte in ogni reparto che vince le partite a mani basse.
Ovviamente i giocatori del Torino sono convocati in Nazionale, ma ciò che avviene il 27 aprile e l’11 maggio 1947 rappresentano, ancora oggi, un primato pressoché imbattibile: contro la Svizzera a Firenze giocarono dal 1’ nove giocatori del Torino e contro l’Ungheria al “Comunale” di Torino addirittura dieci. Quello contro i magiari è un primato difficilmente battibile: solo il portiere, l’allora juventino Sentimenti (detto Sentimenti IV), non è del Toro. L’allora Commissario Tecnico Vittorio Pozzo, l’allenatore del trittico Mondiale-Olimpiade-Mondiale del quadriennio 1934-1938, nonché ex giocatore, allenatore e tifoso del Torino, non può non convocarli e non farli giocare.
Passano in vantaggio gli azzurri con Gabetto al 24’ e gli ungheresi pareggiano con Szusa al 52’. Ancora Gabetto supera il portiere Toth al 70’ e fa 2-1, ma per un fallo di mano di Ballarin, l’arbitro svizzero von Wartzburg concede il penalty ai magiari con Puskas che fa 2-2 al 76’. È Loik al minuto 89 a fare il 3-2 finale.
3 maggio 1949, l’ultima partita.
Il campionato 1948/1949 vede ai nastri di partenza il Torino candidato numero 1 alla vittoria del titolo, ma rispetto agli altri anni la rivalità è cresciuta: Inter e Milan si sono attrezzate e vogliono staccare lo scudetto al Torino.
I granata di Novo non cambiano molto, se non per l’arrivo di Rubens Fadini dalla Gallaratese. La vera novità del Torino è il ritorno, dopo nove anni, di Ernő Egri Erbstein: il tecnico ungherese aveva lasciato l’Italia nel 1939 per via delle leggi razziali ed è tornato voluto fortemente da Novo, mentre la guida tecnica (intesa come “allenatore”) è affidata all’inglese Leslie Lievesley, già preparatore atletico della Nazionale italiana da un anno e con diverse esperienze all’estero.
I ragazzi di Novo giocano a memoria e sono ingiocabili, ma sulla squadra inizia a pesare l’età, in quanto cinque giocatori hanno superato i trenta anni e allora arrivare a giocare allora a quell’età non è una cosa da poco.
Il calendario vuole che alla trentaquattresima giornata ci fosse lo scontro diretto tra Inter e Toro allo stadio di San Siro: si sarebbe deciso il campionato, risultando il più combattuto degli ultimi cinque anni proprio contro i nerazzurri di mister Cappelli e del trio Nyers-Lorenzi-Amadei
Poco tempo prima della partita, capitan Mazzola ricorda a Novo dell’incontro avvenuto il 27 febbraio precedente prima di Italia-Portogallo tra lui ed capitano lusitano Francisco Ferreira: questo aveva chiesto a Mazzola di andare a giocare il 3 maggio successivo, giorno della festa della scoperta del Brasile (avvenuta nel 1500 grazie a Pedro Álvares Cabral), un’amichevole tra il suo Benfica ed il Torino. Novo il quale non è dell’idea visto che il campionato è ancora nella fase calda e non vuole che la sua squadra sprechi energie in vista del rush finale. Mazzola insiste e i due arrivano ad un accordo: se il Torino non perde il match del 30 aprile, il Torino può partire per il Portogallo.
Il Torino privo di capitan Mazzola regge bene la forza d’urto dei nerazzurri e dei tre “tenori” davanti: 0-0 e scudetto virtualmente assegnato al Torino. Il Torino il 1° maggio parte alla volta di Lisbona dove il 3 maggio avrebbe affrontato il Benfica. Sarebbe stata una partita benefica per lo stesso Ferreira, in ristrettezza economiche, e l’incasso della partita (che portò al tutto esaurito) andò tutto a lui. Non è la prima volta che il Torino partecipa a tournée internazionali: anche l’anno prima (a campionato finito) era partito alla volta del Brasile per giocare quattro partite contro squadre brasiliane di rango (Palmeiras, Corinthias, Portuguesa e San Paolo) tra il 19 ed il 29 luglio 1948.
Da Malpensa partono diciotto giocatori della prima squadra, tre dirigenti tre membri dello staff tecnico (il Dt Egri Erbstein, l'allenatore Lievesley e il massaggiatore Cortina) e tre giornalisti (Casalbore di “Tuttosport”, Cavallero de “La Stampa” e Tosatti de “La Gazzetta del Popolo”).
Non salirono sull’aereo Sauro Tomà e Renato Gandolfi: il difensore è infortunato al menisco mentre il vice- di Bacigalupo non parte perché a prendere il suo posto è Dino Ballarin, fratello minore di Aldo, come sorta di premio visto che è il terzo portiere. Al posto di Tomà sale Maroso. Deve andare a Lisbona anche il giovane centrocampista della formazione “Ragazzi” Luigi Giuliano, bloccato per problemi di passaporto. Al suo posto sale Renato Casalbore.
Sarebbe dovuto partire anche Nicolò Carosio, ma l’imminente cresima del figlio gli impedisce salire con la squadra venendo sostituito da Renato Tosatti. Non sale sull’aereo Ferruccio Novo, colpito da una grave broncopolmonite ma un febbricitante Mazzola: il capitano stringe i denti e non può deludere né l’amico Ferreira né i tifosi che assieperanno lo Stadio Nazionale di Lisbona. Franco Ossola sale sull’aereo molto emozionato perché ha da poco scoperto che la moglie Piera è in attesa del loro primo figlio.
Le formazioni che scendono in campo allo Stadio Nazionale sono composte da Bacigalupo, Ballarin, Martelli, Grezar, Rigamonti, Castigliano, Menti, Loik, Gabetto, Mazzola e Ossola contro Contreros, Jacinto, Fernandes, Morira, Felix, Ferreira, Corona, Arsenio, Espirito Santo, Melao e Rogério. Arbitro dell’incontro l’inglese Harry Pearce. Vanno in gol Ossola al 9’, poi al 19’ Melao segna l’1-1. Melao segna ancora e Buongiorni (subentrato Gabetto) porta la partita sul 2-2. Arsenio chiude il primo tempo sul 3-2 e nella ripresa segna Rogerio e Menti fa 4-3 su rigore.
I 65mila tifosi presenti allo stadio di Lisbona ebbero un triste privilegio: non lo sapevano, ma saranno gli ultimi ad aver visto giocare dal vivo il Grande Torino.
Superga, 4 maggio 1949, ore 17:05. La fine della Leggenda
Il ritorno in Italia del Torino è previsto per mercoledì 4 maggio, il giorno dopo la partita contro il Benfica. Come per la partenza, l’atterraggio è previsto a Malpensa: a riportare a casa la squadra, il pullman sociale della squadra, il “Conte rosso”.
Le trentuno persone partite da Malpensa il 1° maggio ripartono alle ore 9:52 sull’aereo Fiat G.212 (siglato I-ELCE) della Avio Linee Italiane: il rientro in Italia è previsto nel tardo pomeriggio e dal giorno dopo sarebbe iniziata la preparazione per il match casalingo contro la Fiorentina.
L’aereo fa una “tappa tecnica” a Barcellona. L’aereo guidato dal comandante Pierluigi Meroni con gli altri tre membri dell’equipaggio (Cesare Bianciardi, Celeste d’Incà e Antonio Pangrazzi) riparte alle 14:50 alla volta dell’Italia.
Arrivati nei pressi della Liguria, l’aereo vira verso Torino: non si sa per quale motivo lo fa, ma si pensa (senza conferma) che la squadra è stanca e non voleva ancora di più allungare il viaggio. Meroni avvisa Malpensa del cambio di rotta e si mise in contatto con l’Aeroporto di Torino-Aeritalia per pianificare l’arrivo. A livello tempistico, dalla virata all’atterraggio sono circa trenta minuti.
Non appena l’aereo arriva in territorio Torinese, il tempo peggiora a vista d’occhio: pioggia forte, nuvole basse ed un forte vento mettono in difficoltà l’equipaggio.
Inizia un fitto dialogo tra l’aereo e la torre di controllo dell’aeroporto: alle 16:55 questa comunica a Meroni la situazione meteorologica: Meroni vede che l’altitudine del veivolo è 2.000 metri, ma non sa che l’altimetro ha subìto un guasto. Comunica quell’altezza alla torre di controllo: era però ad un’altezza di poco superiore ai 700 metri.
Alle 17:03 la torre di controllo di Torino si mette in contatto con l’aereo, ma dall’aereo non arriva nessun segnale. Si teme che a causa le difficili condizioni climatiche si sia rotto qualcosa all’interno del sistema di comunicazione. Non arrivò mai nessuna comunicazione via radio perché alle 17:05 l’aereo pilotato da Meroni e Bianciardi si schianta contro parte meridionale della collina di Superga, dietro la basilica. Il fragore dello schianto arriva fino in città. Muoiono tutte le persone a bordo.
Il primo ad accorgersi del boato è il cappellano della basilica di Superga, don Tancredi Ricca: è intento nella lettura quando sente prima un rumore molto forte seguito da un boato. Prende l’ombrello, esce, si dirige dietro la basilica e vede un aereo che si è scontrato contro la collina. Tutto ha preso fuoco e c’è silenzio. Accorrono altre persone, richiamate da ciò che hanno sentito. Don Ricca, sconvolto, si avvicina al relitto e vede tutto sparso: nota un portafoglio per terra, lo apre, prende il documento di identità al suo interno e legge “Bacigalupo Valerio”. Nel mentre, una delle persone che era lì con lui urla il nome di Maroso e un altro, aprendo una valigia, vede la maglia del Torino con lo scudetto. Quello era l’aereo che trasportava il Torino da Lisbona: erano tutti morti. L’unica parte integra dell’aereo era la parte posteriore, ovvero l’impennamento: era un aereo lungo 23,05 metri e ne erano rimasti intatti pochi metri. In pochi minuti una folla di persone si precipita sulla collina per vedere cosa è successo e con loro arrivano tantissimi mezzi di soccorso: la strada che porta alla basilica diventa un imbuto. Si diffonde subito la notizia che quello era l’aereo del Torino.
Ci doveva essere anche il momento del riconoscimento delle vittime in via non ufficiale e l’ingrato compito spetta a colui che più di tutti conosce quella squadra: Vittorio Pozzo. L’ex CT della Nazionale riconosce tutti i suoi “ragazzi” e conferma che quella è (anzi era) la squadra del Torino. In serata tutti i corpi sono portati all’ospedale di Torino per il riconoscimento ufficiale e Pozzo è ancora lì presente. La notizia della tragedia rimbalza su tutte le radio e i giornali escono in edizione straordinaria. Il giorno dopo l’Italia si sveglia con la tragica notizia. La camera ardente è a Palazzo Madama e le esequie si tengono il 6 maggio al Duomo di Torino e partecipano 600mila persone, tra tifosi e non tifosi. Torino allora aveva poco più di 700mila abitanti.
È una cerimonia toccante con tutte le trentuno bare allineate dentro il duomo di Torino. Tutti piansero e non credettero a ciò che vedevano: la squadra più forte del Paese non c’è più.
Il campionato doveva chiudersi, volenti o nolenti: quale “Torino” avrebbe terminato il campionato? La squadra che gioca le ultime quattro partite di campionato rimaste (contro Genoa, Fiorentina, Sampdoria e Palermo) è la formazione giovanile ed in accordo con tutte le squadre contro quel Torino “bis” avrebbe giocato la rispettiva formazione giovanile. Per il Torino, in quelle partite, scendono in campo Vandone, Motto, Mari, Macchi, Ferrari, Russo, Giuliano, Francone, Marchetto, Giammarinaro e Balbiano.
Il Torino vince tutte le quattro partite vince il campionato lasciando staccato di cinque punti l’Inter, la sua rivale più accreditata. Il Torino vince il suo sesto scudetto, il quinto consecutivo. Per rispetto, nelle due partite casalinghe giocate al Filadelfia non suonò la tromba di Oreste Bolmida.
A Superga si conclude la parabola di quella che è ancora oggi considerata come la squadra italiana più forte di sempre. Un gruppo di giocatore che, come si dice da allora, “solo il fato li vinse”.
Valentino Mazzola, il capitano del Grande Torino
La rosa del Torino per la stagione 1948/1949 è composta da venti giocatori: si salvano dall’incidente di Superga solo in due poiché non partirono per la trasferta di Lisbona. I giocatori del Grande Torino erano fortissimi e avevano tanti ammiratori anche tra chi non tifava per i granata.
Il giocatore più rappresentativo, iconico e più amato del Grande Torino è, senza dubbio, Valentino Mazzola, il capitano.
Nato a Cassano d’Adda il 26 gennaio 1919, Valentino Mazzola a dieci anni perde il padre. A Valentino piace il calcio fin da quando è piccolo: nella sua Cassano non appena vede un qualcosa che può essere calciato, lo calcia. Spesso (o quasi sempre) non è un pallone vero e proprio ma un qualcosa che gli assomiglia come i barattoli di latta: il suo soprannome diventa, appunto, “barattolo”. In lombardo, “tulen”. Inizia a giocare nella squadra del suo paese, la Tresoldi, ed è figlio di un’Italia povera uscita vincitrice dalla Prima guerra mondiale ma che vive nella miseria delle campagne.
Mazzola inizia giovane a lavorare venendo assunto all’Alfa Romeo di Arese come meccanico. È bravo e gioca nella squadra degli operai dove milita una sola stagione, la 1938/1939. La squadra, nata nel 1936, parte subito dall’allora Serie C, vede il 19enne Valentino destreggiarsi molto bene tra i professionisti, ma nel 1940 deve lasciare la squadra milanese perché acquistato dal Venezia, al suo secondo campionato di Serie A: Mazzola quell’anno è sotto le armi e a Venezia è arruolato in Marina.
Il centrocampista lombardo debutta in Serie A il 31 marzo 1940 contro la Lazio allo stadio “Nazionale” mentre la sua prima rete arriva alla penultima giornata contro il Bari al “Penzo” il successivo 26 maggio.
I neroverdi nella stessa “finestra” di mercato acquistano anche dal Milano il fiumano Ezio Loik. I due nuovi giocatori spingono la squadra al dodicesimo posto e a vincere la Coppa Italia, con Loik che segna il gol vittoria nella finale contro la Roma. La stagione successiva il Venezia arriva addirittura terzo dietro a Roma e Torino: fatale ai granata la sconfitta proprio contro i veneziani che impediranno ai granata di vincere il titolo. Titolo che il Torino vincerà l’anno dopo…proprio anche grazie agli innesti di Mazzola e Loik.
La sua prima partita in maglia granata è il match di Coppa Italia del 20 settembre 1942 contro l’Ancona, mentre in campionato debutta il 4 ottobre 1942, contro l’Ambrosiana Inter. Giocherà in tutto 201 partite con il Torino, segnando 123 reti e diventando capocannoniere nella stagione 1946/1947 con 29 reti.
Le cronache del tempo parlano di Valentino Mazzola come non solo il giocatore più forte del Torino, ma tra i più del Mondo del tempo. Dotato di ottima tecnica, è il classico numero 10 (anche se allora non c’è la mistica verso quel numero che ci sarà a partire dal 1958 in avanti) ed è dotato di una visione di gioco incredibile. È un giocatore a tutto campo: è attaccante quanto centrocampista quanto difensore: è nato per giocare a calcio.
Carismatico e trascinatore, è il simbolo di quella squadra nonché del calcio italiano che si rimetteva in piedi con la fine della guerra. Giocatore completo, eclettico e sempre pronto ad aiutare i compagni, Mazzola gioca solo dodici partite in Nazionale (debuttando il 5 aprile 1942 contro la Croazia a Genova) e segnando quattro reti. È il capitano della Nazionale nella partita dell’11 maggio 1947 a Torino dove scende in campo con altri nove compagni di squadra. Avrebbe voluto partecipare al Mondiale brasiliano del 1950, il primo post guerra, con l’Italia campione in carica e di cui sarebbe stato capitano. Valentino Mazzola è la stella della squadra, il più pagato di tutta la rosa guadagnando il doppio dei compagni. Compagni che accettano sempre il suo riguardo di favore da parte del presidente Novo perché sanno che se li merita e che loro non ci sarebbero stati se non avessero giocato con Mazzola. Fuori dal campo però Mazzola è un’altra persona, poco incline ai rapporti personali, è riservato e ha una vita famigliare molto particolare: sposato nel 1942 con Emilia Ranaldi che gli dà Alessandro (detto Sandro) e Ferruccio, la lascia per sposarsi con Giuseppina Cutrone dopo l’annullamento del matrimonio con la prima moglie: uno scandalo per l’Italia di quel tempo. Sia Sandro che Ferruccio diventeranno calciatori.
Valentino Mazzola ha 30 anni quando morirà nella strage di Superga.
Il lascito. Che non può esserci
In ricordo delle vittime di Superga, il 26 maggio 1949 si è giocata un’amichevole a scopo benefico tra il River Plate ed una selezione di giocatori italiani (che indossano una maglia di colore granata) con l’incasso devoluto alle famiglie delle vittime dell’incidente di Superga. A volerla, l’allora presidente dei Millonarios, Antonio Liberti. La partita finisce 2-2 con reti argentine di Labruna e di Stefano e “toriniste” di Nyers e Annovazzi, allora in forza a Inter e Milan.
Ogni 4 maggio migliaia di tifosi del Torino (e non solo) fanno un pellegrinaggio laico fino alla basilica di Superga: la squadra si posiziona davanti alla lapide, il capitano si issa più in alto di tutti e scandisce ad alta voce i nomi delle vittime dell’incidente aereo.
Grazie all’”Associazione Memoria Storica Granata”, dal 4 maggio 2008 a Grugliasco, nella prima cintura di Torino, presso Villa Claretta, è aperto il “Museo del Grande Torino e della Leggenda Granata” dove è racchiusa la storia del Torino, compresa di molti cimeli della squadra di Ferruccio Novo e alcuni reperti rimasti intatti dalla tragedia di Superga in “un percorso tematico e cronologico”, come indica il sito del Museo, “che unisce sport, cultura e società tra cimeli, documenti e fotografie”. Dal 2002 al 2007 il museo era a Superga. Nel 2015 la FIFA ha proclamato il 4 maggio “Giornata mondiale del calcio”. Il portiere torinese (e torinista) Alberto Fontana ha giocato tutta la carriera con il numero 31 sulle spalle, in ricordo delle vittime di Superga.
Quando si parla del Grande Torino viene facile fare una domanda: quanto avrebbe vinto ancora? E poi: la Nazionale italiana avrebbe fatto il tris mondiale in Brasile nel 1950? Tutte domanda senza risposta perché una risposta non può esserci: il Grande Torino era morto a Superga, spazzato via in un freddo, piovoso e nuvoloso pomeriggio di inizio maggio, schiantatosi a pochi minuti dall’atterraggio contro uno dei luoghi simbolo di Torino e del Piemonte, la basilica di Superga.
Dopo di allora, la squadra non vincerà più il titolo nazionale fino alla stagione 1975/1976, quella della coppia d’oro Pulici-Graziani ed un insieme di calciatori ancora oggi ricordato con affetto dai tifosi granata (come Pecci, Claudio Sala, Patrizio Sala, Zaccarelli e Castellini).
Si dice che quella squadra non ha eguali e nessun’altra squadra sarebbe stata come lei: il Torino di Ferruccio Novo, quello che non perdeva mai in casa, quello che faceva goleade al “Filadelfia” quanto in trasferta, quello che aveva vinto cinque scudetti consecutivi, quello che se non avesse giocato Sentimenti IV avrebbe portato undici suoi giocatori titolari in quella partita storica contro l’Ungheria a Torino. Una squadra moderna per i tempi, una squadra da prendere esempio, una squadra che portò l’Italia a piangere quel tardo pomeriggio di quel mercoledì 4 maggio e che si fermò il 6 maggio per rendere omaggio agli invincibili sconfitti solo dal fato. Quella squadra che aveva Bacigalupo in porta, i difensori Ballarin-Maroso-Rigamonti, i mediani Castigliano e Grezar, i centrocampisti Loik e Mazzola e davanti il trio Ossola-Menti-Gabetto con Martelli, Bongiorni, Grava, Schubert, Operto e Fadini ad entrare per aiutare la squadra a portare a casa la vittoria con la speranza che Dino Ballarin un giorno avrebbe preso il posto di Bacigalupo.
Con la tragedia di Superga scompare anche un tipo di calciatore: il calciatore vicino alla gente. Eh sì perché i giocatori del Torino non erano primedonne, non credevano si essere chi sa chi, li si trova passeggiando sotto i portici di via Po o via Roma oppure nel bar “Vittoria” di via Roma aperto da Gabetto e Ossola, vero ritrovo dei tifosi torinesi e non solo quelli del Toro. Il Grande Torino ha rappresentato l’Italia che stava rinascendo dopo la guerra. L’Italia che vedeva nei ragazzi in granata quella cosa cui pensare per dimenticare le macerie, le sofferenze e la povertà. Il calcio come strumento per “distrazione di massa” per dimenticare per novanta minuti la paura di una guerra civile che poteva scoppiare ma che non è scoppiata, l’Italia povera che si affacciava al Mondo cercando di scrollarsi il suo passato. Il calcio come il ciclismo e i motori, il Grande Torino come Coppi e Bartali e Nuvolari, Ascari, Varzi e Farina.
“Solo il fato li vinse”. Nessuno si dimenticherà mai di loro: il mito del Grande Torino non morirà mai.
I diciotto giocatori morti, età, sepolture ed intitolazioni
"Gli eroi sono sempre immortali agli occhi di chi in essi crede. E così i ragazzi crederanno che il Torino non è morto: è soltanto in trasferta", scrisse Indro Montanelli il giorno dopo la tragedia di Superga sulle pagine de “Il Corriere della Sera”.
Valerio Bacigalupo aveva 25 anni, Aldo Ballarin 27 anni, Dino Ballarin 25 anni, Emilio Bongiorni 28 anni, Eusebio Castigliano 28 anni, Rubens Fadini 21 anni, Guglielmo Gabetto 33 anni, Ruggero Grava 27 anni, Giuseppe Grezar 30 anni, Ezio Loik 29 anni, Virgilio Maroso 23 anni, Danilo Martelli 25 anni, Valentino Mazzola 30 anni, Romeo Menti 29 anni, Piero Operto 22 anni, Franco Ossola 27 anni, Mario Rigamonti 26 anni e Julius Schubert 27 anni. Di questi, sette sono sepolti al cimitero monumentale di Torino (Gabetto, Loik, Maroso, Mazzola, Operto, Ossola e Schubert), gli altri nei cimiteri delle loro zone di origine (Bacigalupo a Vado, i fratelli Ballarin a Chioggia, Bongiorni e Grava in Francia, Castigliano a Carmagnola, Fadini a Arcore, Grezar a Trieste, Martelli a Castellucchio, Menti a Bagno a Ripoli e Rigamonti a Capriolo).
Lo stadio “Comunale” di Torino è intitolato al Grande Torino.
Racconto a cura di Simone Balocco